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venerdì, Aprile 19, 2024
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Il messaggio ai giornalisti di Mons. Francesco Savino

In occasione della giornata dei giornalisti, ovvero quella in cui si celebra San Francesco Sales, il Vescovo della Diocesi di Cassano, Mons. Francesco Savino, ha scritto una lettera indirizzata proprio ai giornalisti.

Cari amici giornalisti,
mi trovo costretto a rinunciare al nostro appuntamento abituale
nella festa del vostro patrono, San Francesco di Sales, a causa della
pandemia e a farvi giungere “a distanza” alcune mie riflessioni.
Il Covid-19, questo ospite inatteso
che non conosce confini, stati, lingue,
sovranità e che continua ad contagiare
senza rispetto di nessuno. Un
avversario globale, feroce ed invisibile,
che ci ha attaccato di sorpresa
mandando in crisi molte delle nostre
certezze e mettendo a nudo tutte le
nostre vulnerabilità.
Ma nel suo tremendo “magistero”, il Covid-19 ci sta anche
mostrando che la salvezza o è collettiva o è impossibile e che o la libertà
viene vissuta come solidarietà o è illusoria e scade a pura retorica.
Potremmo dire che tutte le libertà sono venute al pettine della pandemia,
anche la libertà di stampa e con essa quel bene comune e prezioso per la
democrazia che è l’informazione.
In questo tempo, inquieto, particolare e inedito, in cui i confini tra le
persone sono stati ampliati e al tempo stesso ridotti grazie alla
tecnologia, proprio voi giornalisti siete chiamati ad esercitare la vostra
professione come una nuova forma di prossimità.
Come sapete, Papa Francesco ha scelto le parole dell’apostolo
Filippo, “Vieni e vedi” citate nel Vangelo di Giovanni (1, 43-46) come
tema del 55° Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni Sociali, che
si celebrerà nel maggio 2021, il cui sottotitolo è “Comunicare
incontrando le persone come e dove sono”. Queste parole dell’apostolo
Filippo, sono centrali nel Vangelo: l’annuncio cristiano prima che di
parole, è fatto di sguardi, testimonianze, esperienze, incontri, vicinanza,
in una parola, di vita.
Il Papa cioè ha voluto
sottolineare come la
comunicazione sia soprattutto
dinamicità e comporti un
movimento continuo di relazione
e apertura verso l’altro. C’è nel
suo richiamo una sottolineatura
importante sull’essenza stessa del comunicare. La strada è tracciata da
quel “vieni e vedi” che, declinato nella professione giornalistica, ha una
forza attrattiva che non si limita a una semplice informazione, data quasi
con distacco e disinteresse verso il destinatario, ma esprime la
condivisione di una proposta che spinge a una comprensione dell’altro
nella sua originalità.
In questo senso l’incontro, che è alla base della stessa
comunicazione, diventa pieno. Il tema scelto da papa Francesco, oltre a
ribadire questo principio basilare, presenta anche un elemento di novità.
L’incontro deve avvenire con “le persone come e dove sono”. Non
conosciamo la verità se non ne facciamo esperienza, se non incontriamo
le persone, se non partecipiamo delle loro gioie e dei loro dolori.
È la sfida che consegna a tutti noi una nuova opportunità di
riflessione e di azione e a tutti voi il compito di disegnare una
comunicazione che sia rispettosa e inclusiva. Siete chiamati cioè a
svolgere un servizio importante. Parafrasando quello che san Paolo VI
disse della politica, direi che anche il giornalismo è una forma alta di
carità, perché permette alle persone di connettersi e rimanere unite. Le
notizie che quotidianamente ci fornite, oltre a diffondere i dati del
contagio, le paure e il dolore delle vittime e dei familiari, la necessità di
limitazioni e prudenze, ci stanno facendo conoscere anche le tante
testimonianze di vita e di speranza a cominciare da quelle dei medici e
degli operatori sanitari verso i malati, i sofferenti ei bisognosi.
Questa Giornata offre quindi anche l’occasione per esprimere
gratitudine e riconoscenza a voi che concretamente vi adoperate per
informare, mettendo a disposizione tempo e professionalità, anche
rischiando, in un contesto difficile. Anche grazie a voi si sono potute
custodire e ampliare le relazioni sociali, rimanendo vicini, sia pure
distanti, attraverso la rete dei media.
Dunque il Papa vi invita a partire, a guardare, ad ascoltare, a
raccontare, a volgere il vostro sguardo alle persone, alle cose, agli
avvenimenti: anche voi siete chiamati, nello specifico della vostra
vocazione, a prendervi cura del prossimo. Voi potete, consentitemi di dire
che voi dovete, contribuire con l’esercizio quotidiano della vostra attività
a creare e a promuovere quella cultura della cura “per debellare la cultura
dell’indifferenza, dello scarto e dello scontro, oggi spesso prevalente”
come ci ha ricordato Papa Francesco nel messaggio del 1° gennaio scorso
per la Giornata Mondiale della Pace. E voi potete e dovete farlo
riscoprendo quel filo prezioso che avete tra le mani e che si chiama
parola.
Spesso siamo prede di una comunicazione narcisistica e ripiegata su
sé stessa, che divide invece di riconciliare e questo non può non porre
degli interrogativi e non può non chiamare a nuove responsabilità chi
svolge il delicato compito di informare. I social hanno trasformato la
società della comunicazione in società della conversazione con il rischio di
essere solo intrattenimento. E invece sono il luogo dove si formano le
nostre identità, specialmente quelle dei più giovani. La conversazione può
costruire relazioni vere, belle, solide. Oppure nutrirsi di odio, del
meccanismo amico-nemico, e quando questo accade non c’è una
relazione vera e il rischio è di precipitare all’indietro convinti di stare
andando avanti.
Il linguaggio è un soggetto gravemente malato, che occorre in
qualche modo recuperare. Le parole sono state manomesse, non valgono
più per quello che dovrebbero esprimere, ma spesso vengono piegate a
un uso strumentale che di fatto ne ha snaturato la propria funzione. Per
questa ragione esse non raccontano più ciò che siamo e pensiamo, non
gettano più un ponte stabile ed efficace tre le persone e con le cose con
cui entrano in relazione, ma restano dei gusci svuotati che non significano
più nulla. Il filo della parola è sempre sul punto di spezzarsi. Assistiamo a
continui abusi e distorsioni delle parole anche da parte di molti organi di
informazione, alla continua banalizzazione del linguaggio, dei modi di
esprimersi e della manipolazione messa in atto deliberatamente da
diversi soggetti politici per sottrarre le parole alla loro missione di verità e
al loro ruolo di comunicazione.
Vi è dunque un’etica della responsabilità nell’uso del linguaggio
che deve essere ancora più intensa quando i giornalisti usano il filo della
parola per raccontare l’umanesimo della fragilità. Non cedendo alla
tentazione di “raccontare” per stereotipi, ma spendendosi nella fatica di
cercare, di capire, illuminando le periferie della vita, spesso in penombra
come quelle delle città e scoprendo le storie invisibili, spendendosi ogni
giorno, sul campo, in quel “Vieni e vedi” al quale ci richiama Papa
Francesco nel suo messaggio.
Perché oggi vi sono solitudini che implorano di essere abitate,
ricerche di senso che chiedono di essere accompagnate, povertà interiori,
buie periferie che cercano e domandano luce e algide distanze da
ricolmare. Quante ferite aperte davanti a voi, a portata del nostro filo
chiamato parola, della vostra attenzione e alla vostra cura di cronisti, per
continuare quell’infinito “viaggio intorno all’uomo” che è il giornalismo
secondo la definizione di un grande maestro scomparso di recente come
Sergio Zavoli.
Certo, il filo con cui siete chiamati a cucire le storie non sempre è un
filo colorato e leggero. Diceva il grande teologo francese Henri de Lubac
che il dolore è il filo con cui è tessuta la stoffa della gioia. Il giornalismo
non è chiamato a ricamare, all’arte del bello scrivere, ma anche con il filo
del dolore siete chiamati a tessere la tela della dignità di ogni uomo e di
ogni comunità, attraverso la costante ricerca della verità, con il filo del
coraggio, della passione, dell’onestà intellettuale.
L’informazione che fino a ieri era correlata alla conoscenza degli
eventi e al loro semplice manifestarsi, oggi è responsabile del loro
esprimersi ed evolversi, in rapporto al modo in cui gli eventi vengono
rappresentati. Ed è una responsabilità ancora più grande in un tempo in
cui circola la creduta banalità che una società informatizzata sia, per ciò
stesso, una società informata.
Oggi l’informazione, per la sua universalità e velocizzazione,
condiziona le cose del mondo allo stesso modo, ormai, dell’economia.
Su internet, lungo le nuove e prodigiose autostrade elettroniche, tra
insidie e sicurezze, il futuro anzi il presente, sta giocando la sua partita più
grande. Un sapere universale rischia di omologare il nostro destino. Ecco
perché al giornalismo e in genere alla comunicazione spetta oggi il
compito di fare chiarezza su tutto quanto, per suo merito e demerito, ci
coinvolge, ci inquieta e, anziché unirci, potrebbe dividerci.
Diceva un celebre giornalista argentino, Horacio Verbitsky che
“giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia; il resto è
propaganda. Il suo compito è additare ciò che è nascosto, dare
testimonianza e, pertanto, essere molesto”. Mi sembra una schietta ed
efficace sintesi di quella che è l’essenza del giornalismo, che è una
missione più che un mestiere. Molti giornalisti a causa della libertà e della
ricerca della verità sono stati assassinati, ma penso anche ai tanti che
lavorano in silenzio, con contratti precari, i cui nomi difficilmente saranno
letti sulle pagine dei quotidiani “importanti”. Eppure è grazie a coloro che
muovono quelle “penne”, che tessono contatti, raccontano storie, molto
spesso intricate, che molti “ultimi” trovano voce, un volto.
Un buon giornalismo è quello che sollecita l’attenzione sulle
ingiustizie e accompagna chi rivendica i propri diritti in solitudine. Il
giornalismo che scrive ciò che vede è di servizio ai cittadini e non a
servizio di qualcuno. Oggi più che mai c’è bisogno di una figura
professionale che contribuisca a formare un’opinione profonda nelle
persone, non è vero che la rete rende consci di ciò che succede. Un buon
giornalista smonta le false verità e fa crescere uno spirito critico nel
lettore, un buon giornalismo solleva la coltre con cui ogni potere tende a
coprire e mostra cosa c’è sotto. Non bisogna dimenticare che, se anche
tutti abbiamo la possibilità di vivere in diretta gli avvenimenti, non si può
rinunciare ad un intermediario che possa spiegare la profondità di quello
che viene detto.
Oggi più che mai e soprattutto nel nostro amato Sud, nella nostra
amata Calabria, abbiamo bisogno di un giornalismo che nutra l’opinione
pubblica di verità anche se non sempre sono piacevoli, anzi soprattutto
quando non sono piacevoli. Abbiamo bisogno di un giornalismo che
faccia ragionare e metta la classe dirigente nella condizione di valutare
le priorità. Un giornalismo al servizio dei cittadini deve esercitare una
pressione che induce a prendere decisioni, a tendere al meglio, a valutare
molti aspetti di ogni singola questione. Bisogna raccontare con onestà ma
anche con verità quello che succede e porre delle domande, essere anche
inopportuni. Solo così il giornalista e il giornalismo hanno un ruolo. Dove
non c’è il controllo democratico da parte di giornali, che sono i cani da
guardia del potere, è chiaro che il potere non si comporta bene, perché il
potere corre sempre il rischio di prendere pessime abitudini che fanno
male alla democrazia e alle comunità che è chiamato a governare.
In questa missione dei giornalisti per raccontare la propria comunità
e farsi sentinelle della giustizia, ci sono tre stelle polari che possono
illuminarne il cammino e che furono indicate da Papa Francesco in un
incontro con i vertici nazionali del vostro Ordine professionale. La prima è
“amare la verità” che vuol dire non solo affermare, ma vivere la verità,
testimoniarla con il proprio lavoro. La relazione è il cuore di ogni
comunicazione. Questo è tanto più vero per chi della comunicazione fa il
proprio mestiere. E nessuna relazione può reggersi e durare nel tempo se
poggia sulla disonestà.
Il secondo richiamo è a “vivere con professionalità”. Non si tratta –
secondo il Papa – di fermarsi al recinto della deontologia, ai doveri scritti
nei codici, ma di non sottomettere la propria professione alle logiche
degli interessi di parte, siano essi economici o politici. Compito del
giornalismo, oserei dire la sua vocazione, è far crescere la dimensione
sociale dell’uomo, favorire la costruzione di una vera cittadinanza.
L’ultimo è quello a praticare un giornalismo che informa ma sempre
rispettando la “dignità umana”: Un articolo viene pubblicato oggi e
domani verrà sostituito da un altro, ma la vita di una persona
ingiustamente diffamata può essere distrutta per sempre. La critica è
legittima e dirò di più è: necessaria, così come la denuncia del male, ma
questo deve sempre essere fatto rispettando l’altro e la sua vita.
Sia questo il vostro vademecum sulle strade di questa nostra terra,
in cui vi esorto a farvi prossimo di tutti, ad abitarla per venire e vedere,
per fare della vostra professione uno strumento di costruzione e di
solidarietà. Fatevi pellegrini delle parole e compagni di strada degli
uomini e delle donne di questo nostro tempo, per volgerlo ad essere un
tempo di giustizia per tutti.

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